STORIE DELL'ALTRO BASKET - Chris Andersen, il "Birdman" che non sapeva comunicare

Non sappiamo e non sapremo mai che tipo di risposta Norm Stewart, leggendario coach di Missouri University, si aspettasse quando chiese a Chris Andersen quali fossero i suoi interessi fuori dal campo di basket. Di certo sappiamo che il “feste e ragazze”, seguito dal naturale invito a restare a Blinn College – episodio raccontato qui dal dinamico duo – era (ed è ancora) l’inevitabile conseguenza della latente incomunicabilità di un uomo complesso: incomunicabilità che va ben oltre i tatuaggi che coprono buon 90% del suo corpo e sostanziatasi in una vita possibile solo negli Stati Uniti d’America.

Bisogna, però, fornire l’adeguato background e si rende necessario un ritorno alle origini. Tenendo fede a quanto citato dalla più nota fra le enciclopedie web, “la storia di Chris Andersen non può essere separata da quella della donna che l’ha cresciuto, sua mamma Linda”. Che di cognome fa Holubec un passato nelle forze armate nonostante aspirazioni e spirito libero da byker come i suoi genitori. È di stanza alla base di Port Hueneme come infermiera quando si innamora dell’ufficiale Claus Andersen, militare ‘discontinuo’ se ne facciamo una questione di iconografia ideale. Al punto che, un matrimonio e tre figli dopo, tra cui il nostro Chris, abbandona la famiglia per andare a New York e vendere i suoi dipinti, nuova folgorante passione.

Con la parabola esistenziale orientata verso il più classico dei classici (madre sola, senza soldi, con figli a carico), Linda, dopo aver fronteggiato gli spettri (e qualcosa di più) della depressione, spedisce in blocco gli Andersen in una casa famiglia di Dallas.

A quel che ci è dato sapere, un Chris adolescente ritornerà tre anni e parecchi centimetri dopo, con la mania del basket che comincia a farsi strada in quel cubo di rubik inesplicabile che è la sua mente. Insieme a quello dei tatuaggi, in una rivisitazione del tutto personale del concetto di “body painting”: comincia, si dice dodicenne, si dice incoraggiato dalla madre, ad Albuquerque, sulla Route 66 per non smettere sostanzialmente più. E non azzardatevi a chiedergli motivi o significati reconditi di questo suo rifiuto a lascire immacolato qualche lembo di pelle: non vi risponderebbe.

Frequenta, con alterne fortune, Iola High School e, come detto, Blinn College, prima di rendersi eleggibile per il Draft Nba del 1999. Respinto con perdite (tradotto: nessuno dei 30 general manager ritenne opportuno puntare sul curioso spilungone texano), si trasferisce in Cina ai Jiangsu Dragons. Ecco, cosa abbia fatto Chris Andersen in Cina a vent’anni è una delle grandi domande della storia dell’uomo. In mancanza di testimonianze dirette o comunque affidabili, novello figliol prodigo fa ritorno in patria bazzicando leghe e squadre minori, finché, nel 2001, viene ingaggiato dai Denver Nuggets. Medie tutto sommato discrete (5.1 punti, 4.8 rimbalzi e 1.3 stoppate a partita) e giocate ad altezze sconosciute ai comuni mortali valgono a lui il titolo di “Birdman”, agli americani il plauso di tutti noi per aver azzeccato con dovizia di particolari l’ennesimo soprannome.

Dopo un paio di partecipazioni allo “Slam Dunk Contest” con risultati classificabili bonariamente come “modesti” (nel 2005 provò, senza successo, la stessa schiacciata per otto, dicansi OTTO, volte), Chris porta armi, ali e bagagli agli Hornets, nel 2004 di base a New Orleans. Minutaggio e medie crescono così come anche le prodezze extra campo. Due anni dopo, sempre nella “Big Easy”, Andersen vive il momento più difficile della sua carriera sportiva, rimediando due anni di squalifica per violazione della drug policy della lega. Rientrato nel gennaio del 2008, al termine della stagione fa ritorno ai Nuggets. Ed è di nuovo amore, con tanto di seconda posizione per stoppate nella lega (2.42 a partita) e con la melassa di un rinnovo quiquennale.

Ma l’incomunicabilità è sempre in agguato. Perché va bene essere tetragoni all’emissione di suoni di senso compiuto che vadano oltre i monosillabi, ma, talvolta, manifestare il proprio pensiero torna utile. Soprattutto se la tua squadra decide di amnistiarti (17 luglio 2012) mentre il tuo nome è sulla bocca di tanti a causa di una brutta storia a un’elaborata truffa online organizzata da una donna canadese che getta su Chris l’ombra, il fango e l’onta dei crimini  contro minori via internet. Accuse che si riveleranno infondate ma dettate dal pregiudizio e dalle quali non riesce a difendersi come vorrebbe fin quando, nel 2013, tutto viene definitivamente chiarito. Finendo nel migliore dei modi, nonostante tutto.

Anche qui ritorna il tema dell’incomunicabilità: per lui parlano, non sempre nel modo giusto, i tatuaggi, come fosse un murale. Ma lui è un uomo e quando un uomo passa attraverso spiacevolezze del genere, innocente o meno, fa comunque fatica a riabilitarsi. Conta poco che la giustizia federale del Colorado abbia chiarito l’estraneità alla vicenda del nativo di Long Beach: squadre che vogliano puntare su di lui non se ne trovano.

Fino al gennaio del 2013. La telefonata che ti allunga la vita (cestistica) è di Pat Riley, plenipotenziario dei Miami Heat di LeBron James, impegnati nella faticosa cavalcata verso il “back to back”: decadale fino a fine mese, con possibilità di rinnovo. Fino a quando verrà accusato, se sarà accusato.

Normalmente uno che non gioca da sei mesi non lascerebbe nemmeno finire la telefonata e si fionderebbe in quel di South Beach a firmare il contratto. Ma qui è di Andersen che si tratta. Uno che parlerà anche poco ma che, quando lo fa, consegna alla storia autentiche perle. Come la risposta alla telefonata di cui sopra: “Coach (poco importa che Riley non alleni più da anni, per tutti lui resterà sempre un coach). magari vengo. Però, prima, vado a caccia di alci”. Con arco e frecce. Riley abbozza, forse sorride, ma aspetta. A fine mese Chris ha già la tuta degli Heat addosso quando gli agenti incaricati del suo caso irrompono in una casupola di Easterville, in Canada, scoprendo gli indirizzi IP collegati alla truffatrice. E, a febbraio, il contratto viene allungato fino al termine della stagione: Riley viene ripagato da 42 partite da “Birdman” (4.9 punti a partita col 57% dal campo, cui aggiungere 4.1 rimbalzi in poco meno di 15 minuti di gioco).

Ma il capolavoro arriva ai playoff. Nelle finali di Conference contro Indiana (una delle serie più dure nella storia della Miami sportiva), a cavallo tra gara 1 e gara 5, segna 15 canestri con 15 tiri. Media realizzativa del 100%, non sbaglia mai. E mette la sua firma in calce al titolo del 2013, dopo altre 7 sanguinose battaglie con i San Antonio Spurs.

Si perché, piaccia o meno, il “Birdman” è campione Nba. Nonostante (o, forse, grazie a) madre byker, tatuaggi, incomunicabilità e caccia all’alce. Only in the U.S.A. Where Chris Andersen happens.

 

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone