STORIE DELL'ALTRO BASKET - Game Seven

Le Finals Nba sono una storia. Lunga settant’anni, una stagione, un giorno. Quello di gara 7. Che non sempre arriva, ma quando succede si porta dietro tutto e il suo contrario. Rivalità storiche, rancori personali mai sopiti, speranze, sogni, aspettative e delusioni cullati lungo 82 partite di regular season e almeno una buona quindicina di playoff. Tutto ridotto a un solo singolo momento, a 48 minuti da dentro o fuori, da tutto o niente, da lacrime di gioia o da quelle di dolore. E’ lo sport, è il basket, è la vita.

Dal 1947 a oggi, per 18 volte si è arrivati al redde rationem con il titolo in palio in una singola partita. E noi, tra queste, ne abbiamo scelte sette. Come il numero più amato e odiato dai giocatori. Come quello dei peccati capitali. Perché per tutti gli appassionati un evento così sono un vizio. E se un domani verremo condannati per questo, così sia.

SUPERBIA – 5 maggio 1969: Boston Celtics @ Los Angeles Lakers 108-106

I Lakers non hanno mai avuto un gran bel rapporto con le gare 7 di finale. Un record di 4-5 (di cui due con la squadra ancora a Minneapolis), che diventa 1-4 quando dall’altra parte ci sono gli odiati Boston Celtics. Eppure c’è un anno in cui nemmeno la maledizione del folletto irlandese sembra poter sbarrare il cammino dei gialloviola. Che, nel 1968/1969 passeggiano fino all’ennesimo rendez vous con quegli altri. Dal 1961, cinque volte si erano ritrovati di fronte in Finale e per 5 volte avevano vinto i Celtics di Red Auerbach. Che, però, sono sull’orlo del disfacimento, non foss’altro perché Bill Russel, l’uomo che ha distrutto i sogni di gloria di un’intera generazione Lakers, si ritirerà al termine di quella stagione. E’ per questo che, nonostante l’equilibrio sancito dal 3-3, il proprietario degli anegeleni Jack Kent Cooke non sembra minimamente preoccupato. Tanto più che gara 7 si gioca in casa, al Forum di Inglewood e agli ordini di coach van Breda Kolff c’è gente come Jerry West, Oscar Robertson e Wilt Chamberlain. Niente può andare storto e così Cooke si porta avanti con i preparativi: ingaggia la banda che dovrà suonare al termine della partita per celebrare la vittoria dei suoi, riempie il Forum di palloncini gialli e viola da far librare come colombe alla sirena finale, catechizza le televisioni locali sull’ordine delle interviste da fare, mette su ogni singolo sediolino del palazzetto il programma dei festeggiamenti. Sfortuna vuole che uno di questi finisca nelle mani di Bill Russel. Il quale legge, sorride e si reca in spogliatoio. Ai compagni di squadra poche, semplici parole: “Sarà divertente vederli mentre dovranno bucare tutti quei palloncini”. Ne viene fuori una partita spaccacuore, punto a punto, risolta dal tiro sghembo di Don Nelson e che lascerà il povero Jerry West (MVP delle Finali nonostante si sia trovato dalla parte sbagliata) preda di una depressione dalla quale, forse, non è mai ripreso del tutto.

ACCIDIA – 8 maggio 1970: Los Angeles Lakers @ New York Knicks 99-113

L’anno dopo, però, i Lakers possono già riprovarci. E, stavolta, non ci sono i Celtics con tutto il loro carico di retropensieri, cabala e maledizioni vere o presunte. I New York Knicks, però, non sono un avversario da sottovalutare, potendo contare su Walt ‘Clyde’ (per via del look lisergico ispirato al bandito compare di Bonnie) Frazier e, soprattutto, il grande Willis Reed, protagonista di un lungo e memorabile duello sotto i tabelloni contro Wilt Chamberlain. Duello che, però, rischia di non esserci il giorno in cui al Madison Square Garden è in programma gara 7: l’infortunio alla caviglia sembra troppo grave per consentire al gigante della Louisiana di scendere in campo. Sembra, appunto. Perché al momento della palla a due, tra due ali di folla adorante, è uno dei primi ad uscire dagli spogliatoi. In effetti la sua partita durerà un paio di possessi, non di più. Ma tanto basta:

E Wilt? Beh, Wilt fa il Wilt. Con i suoi pregi e i suoi difetti. Tra i quali quello di non saper infierire contro un avversario in difficoltà. Per pigrizia, indolenza o, forse, eccessiva sicurezza nei suoi straordinari mezzi. Tenendosi a distanza sulle due conclusioni mandate a bersaglio da Reed (ovvio MVP della serie) fa molto di più che concedere 4 punti agli avversari: fa entrare, per non uscirne più, pubblico e Knicks in partita. Il finale di partita e serie, di fatto, si scrive lì.

INVIDIA – 12 giugno 1984: Los Angeles Lakers @ Boston Celtics 102-111

C’è chi dice che Magic Johnson si sia sottoposto consapevolmente alla tortura di guardare gli altri festeggiare dalla finestra del suo albergo a Boston. E, per ‘altri’, intendiamo i soliti Celtics dell’altrettanto solito Larry Bird. Che si prese il titolo del 1984 dopo gara 3, meglio nota come il ‘Massacro del Memorial Day’: 104-137 Lakers al Forum, con l’inerzia tutta dalla parte dei gialloviola. Almeno fin quando ‘Larry Legend’ non pronuncia le cinque parole che porteranno all’anello: “They’ve played like sissies”, riferito ai suoi compagni. Un insulto in piena regola, volto a stimolare una reazione. Che produce tre vittorie nelle successive quattro partite di cui l’ultima, la più importante, in un Boston Garden da tregenda.

E, quasi come in un ideale passaggio di consegne, negli spogliatoi è Bill Russell il primo a parlare con Bird: “Il modo in cui hai giocato e vinto questa serie fa di te un vero Celtic”. Il tutto mentre Magic, dal suo letto di dolore di quella grigia camera d’albergo, guarda gli altri festeggiare, infliggendosi una giusta punizione. E provando un pizzico d’invidia verso quell’amico/rivale che non ha mai odiato così tanto come quel giorno.

IRA – 20 giugno 2013: San Antonio Spurs @ Miami Heat 88-95

Tim Duncan non è mai stato uno che abbia fatto comprendere le proprie emozioni. Tanto a parole quanto con il linguaggio del corpo, nelle situazioni buone e in quelle meno. C’è però la classica eccezione che conferma l’ancor più classica regola. 20 giugno 2013, American Airlines Arena, gara 7 di Finale tra Spurs e Heat. Ci sono stati momenti della serie in cui San Antonio avrebbe potuto chiuderla in qualunque momento avesse voluto. La più ghiotta delle quali a gara 6, frustrata da THE SHOT by Ray Allen. A un minuto dalla fine dell’ultimo atto a South Beach, con Miami avanti 90-88, Ginobili cattura una palla vagante dopo un rimbalzo e decide di andare da Tim Duncan in post.

Uno scatto d’ira furibondo, quanto di più distante sia possibile da un uomo insondabile, ma tipico di chi sente sfuggirgli dalle mani un premio che avrebbe meritato. E poco importa che l’anno dopo sarebbe arrivata la più dolce delle rivincite sempre contro gli Heat: in quell’occasione Tim Duncan ha dimostrato di essere anche lui un umano. E, quindi, di poter sbagliare e arrabbiarsi proprio come un uomo normale, lui che uomo normale non è, non è mai stato e mai lo sarà.

AVARIZIA – 23 giugno 2005: Detroit Pistons @ San Antonio Spurs 74-81

Prendersi il mondo, prendersi tutto, prendersi anche ciò che, in quel momento, non solo non sarebbe tuo ma nemmeno ti servirebbe. Di Rasheed Wallace si potrebbe dire tutto e tutto l’opposto. Quindi anche che sia stato ‘avaro’ (nell’accezione in cui tale termine sta ad indicare quel costante senso di insoddisfazione per ciò che si ha già che porta al bisogno sfrenato di ottenere sempre di più) nella giocata manifesto della sua vita cestistica. Quando ha cercato di prendersi un pallone che non gli sarebbe spettato.

Perché il raddoppio? Perché lasciare il proprio uomo, tanto più se si tratta di ‘Big Shot Rob’, lui che “io sono un uomo e a zona non mi metto”? Una domanda che non avrà mai risposta, una giocata che porta a una gara 5 persa, a una gara 6 vinta e a una gara 7 gravata dai falli già dall’inizio del terzo quarto.

Al resto ci pensano Manu Ginobili e gli Spurs in una delle partite più agoniche e tese della storia del Gioco.

LUSSURIA – 17 giugno 2010: Boston Celtics @ Los Angeles Lakers 79-83

Dell’idiosincrasia Lakers quando si parla di Finali decise a gara 7 contro i Celtics si è già detto. Immaginatevi, quindi, lo stato d’animo dello Staples Center quando, il 17 giugno del 2010, Andrew Bynum e Kevin Garnett saltano per la palla a due. Erano state le Finals di Bryant solo sull’isola, di Fisher che “dà l’ultimo colpo di pennello ai suoi girasoli“, di Ray Allen e Rajon Rondo che strappano il fattore campo, della panchina dei Celtics che fa tutta la differenza del mondo. Ma tutto impallidisce al cospetto di una partita che i Lakers prima vincono, poi perdono, poi ri-vincono, poi fanno di tutto per ri-perdere. Un paio di tiri sena coscienza di Artest non ancora Metta World Peace che vanno a bersaglio, un Kobe che si prodiga a rimbalzo come mai in vita sua, un Gasol tutt’altro che ‘Gasoft’, un Vujacic glaciale dalla lunetta. Il tutto in funzione di una goduria collettiva senza precedenti anche per la ‘Città degli Angeli’.

GOLA – 21 giugno 1988: Detroit Pistons @ Los Angeles Lakers 105-108

Gola intesa come fame, come voglia sfrenata di vittoria, come rifiuto di perdere, nonostante tutti e nonostante tutto. L’esatto sentimento che alberga in Isiah Thomas, leader assoluto dei Detroit Pistons che, nel 1988, sfidano i Lakers del solito Magic Johnson. In vantaggio 3-2 nella serie e con la possibilità di chiuderla al Forum già in gara 6, Thomas carica a testa bassa fin dall’inizio, salvo poi vedersi frenare da un dolorosissimo infortunio alla caviglia. Frenare non fermare. Perché il numero 11 rientra nel terzo quarto praticamente zoppo e mettendone 25, a coronamento di una prestazione leggendaria.

Che, però, non basterà. I gialloviola vincono quella partita e la successiva, prendendosi onori, gloria e titolo. Ma da quella gara 7 uscirà un Isiah più forte: i due titoli portati a ‘Motown’ nel 1989 e 1990 sono solo la naturale conseguenza di un giocatore più maturo e del suo inesauribile rifiuto di perdere.

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone