La caduta degli Dei. Così Kobe, Tim, Kevin e Ray ci hanno cambiato il basket

La rincorsa al video, alle statistiche, al tabellino. O, meglio ancora, la notte in bianco per guardarla dal vivo quell’azione decisiva sulla quale tutti arriveranno in ritardo. Ma tu no, corredato di occhiaie e stanchezza, ma almeno saprai dire “Io c’ero” o comunque “Io ero sveglio”.

Ogni notte una storia diversa, ogni partita una vita a sé, senza rincorse, ma con tanti ricordi, quelli di anni passati a correre dietro i risultati di ogni palla a due.
Unica costante di tante annate, le facce note, quelle che hanno prima lanciato sogni e poi fatto sognare, uomini capaci di sorprendere, illuminare, trascinare, prendersi la Lega anche per un solo attimo per poi non lasciarla mai più.
E fa strano oggi ritrovarsi lì, davanti agli schermi, senza più avere la possibilità di vederli lottare in campo, grondare sudore, schiamazzare con gli avversari di un trash talking che pare immacolato. Fa strano non vederli vincere.
Perchè tutti hanno vinto. Tutti hanno portato a casa almeno un titolo. Quello che, volenti o meno, li lascerà scolpiti nella storia.

La storia siamo noi. Da quando ho ricordi legati al mondo della pallacanestro, Kobe Bryant, Kevin Garnett, Tim Duncan e Ray Allen sono tutti stati lì. La storia siamo noi.
Dal primo crossover all’ultimo tiro sulla sirena, compagni fedeli di tante battaglie, di tante notti insonni, di tanti “Lo avevo detto io”, di tante sconfitte pure.
L’essenza di un basket che s’è trascinato per un ventennio e che ha saputo fare del suo meglio lasciando ai ragazzi di oggi, sbarbati ventenni abituati a tutto e subito, un’eredità importantissima, una Lega in salute, uno sport amato, apprezzato, seguito in tutto il mondo.
Perché se Jordan, Magic e Bird hanno saputo presentare per la prima volta il nostro sport davanti alla globalizzazione appena nata, questi qui (ma non solo, ovviamente) si sono portati a casa lo scettro di promotori assoluti del basket moderno.
Figli di un’epoca a cavallo tra il vecchio e il nuovo, tra i bus e gli aerei, tra le telecamere pronte a grinzare qualsiasi immagine e gli account Facebook.
Tutti protagonisti (più o meno) di un’età che non tornerà, ma capaci di piacere a tutti.
Impossibile? No.

I 5 anelli. Il primo è sicuramente stato il più protagonista di tutti, ma che volete farci? Ci si nasce con quella voglia di dominare e non è certo colpa sua se nelle vene ha il sangue dei più grandi.
Che la sua parabola sia passata dall’Italia è solo un immenso piacere, perché un po’ – diciamocelo – noi italiani Kobe lo consideriamo nostro. Parla la nostra lingua meglio di tanti altri che qui ci sono nati, spende sempre parole d’orgoglio, promuove il suo lavoro come se a questa terra dovesse qualcosa.
Un ventennio in maglia Lakers non è facile da scordare (anche se i nuovi Lakers stanno facendo di tutto per farlo, e fanno bene) perché Kobe di quei colori non è stato solo fautore, ma creatore di una dinastia nuova che è riemersa dopo i fasti di Magic e Jabbar. Con Shaq ha dipinto pagine stupende di questo sport e si è messo nella condizione di poter guardare tutti dall’alto: gli anelli in bacheca sono 5, MJ è rimasto sopra tutti, ma questo non ti penalizza. Perché se sai azzannare la vita coi morsi di un Mamba, allora persino gli ultimi anni di acciacchi fisici importanti sapranno farti da palcoscenico, fino a quando non deciderai di far cadere giù il sipario con 60 nobili punti che i più giovani neanche al massimo delle loro possibilità fisiche saprebbero ritagliare.

Quanto si possa vincere allo stesso modo, ma comportarsi in maniera completamente diversa può spiegarvelo Tim Duncan. Il caraibico fa simpatia, perché simpatia fanno tutti gli Spurs.
Alzi la mano chi, vent’anni fa, avrebbe immaginato tutto questo. Nessuno. Pochi. Nessuno, ok. Io nemmeno, ma con il mito degli speroni ci siamo cresciuti.
Lo sport come si dovrebbe fare lo fanno in Texas, in quella splendida landa desolata (ma neanche tanto) che Gregg Popovich comanda da un ventennio. Dategli le chiavi della città e lui renderà magica anche San Antonio, che sulle mappe ci è finita proprio per il coyote neroargento.
Cinque titoli pazzeschi e lui, Tim, l’uomo della rinascita, c’è sempre stato; costante uomo in campo o fattore decisivo nei momenti che contano. Ed è andato via senza sbatterci in faccia la sua fama, il suo dominio, il suo potere.
Ha vinto, ha perso; è entrato negli spogliatoi senza entrarci più.
Inaspettato? Mica tanto.
Così come potevamo aspettarci anche il saluto di Ray. Da attore a vincitore di titoli, il più grande tiratore della storia (e non ce ne vogliano Horry, Reggie, nemmeno Steph) del gioco ha tenuto tutti col fiato sospeso per due stagioni. Così come sapeva tenere tutti col fiato sospeso dopo un tiro in sospensione, senza equilibrio.
Bosh col rimbalzo, scarico, bomba. L’azione più bella della sua vita non la dimenticherò mai, perché mette insieme tutto quello che un giocatore di pallacanestro deve fare: essere nel posto giusto, fare la scelta giusta, al momento giusto.
Ray era così, l’uomo giusto, anche quando dietro la cinepresa interpreta un se stesso capace di cambiare la vita a tutti intorno a se.

Vite intrecciate. Ma la sua storia, prima di incontrare il King, era passata da Boston. Fu, con i compagni, l’erede di un gruppo storico, quello formato da Bird e McHale, a loro volta cresciuti sulle fondamenta di Russell.
In quella Boston vincente recitava anche lui, Sir Kevin Garnett, il più forte dei normali, il campione del cuore, il vincente senza lustrini. Si batteva il cuore ad ogni azione decisiva e sapevi che aveva cambiato il corso della partita.
Quel corso che non è riuscito a cambiare a Minnesota, la sua squadra, quella in cui era tornato dopo un peregrinare amorfo dopo il biancoverde dei Celtics.
Da numero uno a chioccia, fino al ritiro. Farà strano non vederli più in campo, lanciarsi occhiate da veterani per ricordare gli anni andati.
Fa già strano aprire i tabellini senza scorgervi i nomi.
Ma si sono affrontati per anni in campo alternandosi al podio ed ora li immaginiamo seduti in poltrona a commentare le nuove leve pronte a prenderne il trono.
Scusateci, ragazzi, se ne parliamo ancora. Ma la caduta degli Dei, da quaggiù, ci rende tristi almeno un po’.

 

 

 

 

 

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone