Manute Bol, l’uomo che toccava il cielo con un dito

Quanto bisogna essere alti per toccare il cielo con un dito? Risposta impossibile da ottenere secondo quasi tutti gli standard scientifici. Ci sono classificazioni delle popolazioni mondiali che riguardano i popoli che hanno maggior probabilità di arrivare a toccarlo: le medie più alte al mondo si registrano, oggi, nella Ex-Jugoslavia, sulle Alpi Dinariche, in Olanda, in Danimarca ed in Germania. C’è un popolo che non viene menzionato ed è quello sudanese. Secondo le ultime stime le medie di altezza/statura rientrano nella norma, ad eccezione di una porzione (18%) di esso che va ben oltre le aspettative. Siamo nella parte nord-occidentale del continente nero e più precisamente nelle regioni di Bahr al Ghazal, Kordofan del sud, Jonglei e Alto Nilo. Sono circa 1.5 milioni di persone ad occupare queste regioni e tutte fanno parte della tribù dei Dinka. Le loro altezze medie sono da capogiro e in un lontano 16 ottobre 1962 a Gogrial, nella parte settentrionale del Sud Sudan, da una famiglia appartenente alla tribù Dinka venne alla luce Manute, Manute Bol. Seguendo alcune storie, leggende o miti, la provenienza dei genitori e degli avi aveva un chiaro segno identificatore: l’altezza. Non a caso il padre di Manute era alto 203 centimetri, la madre 208, la sorella 203 e addirittura il nonno 237 centimetri! Queste voci sono state poi confermate da Manute che, da buon membro della tribù, cresceva seguendo i soliti valori di quella comunità. La pastorizia era il ruolo che fin da bambino gli era stato assegnato, senza avere la possibilità di avere un’adeguata istruzione per aspirare ad un futuro migliore o comunque diverso. Come la gran parte degli adolescenti, Manute prova a cimentarsi nel calcio ma per via di un’altezza al di fuori della norma viene scartato da ogni squadra. Inizia a prendere consapevolezza della sua incredibile statura e decide di iniziare, all’età di 16 anni, a giocare a pallacanestro. La decisione fu accolta piacevolmente tanto dai genitori quanto dalla lega sudanese che, ad appena 18 anni lo chiama nella nazionale maggiore. E da qui parte la favola di Manute, un esile ma altissimo ragazzo sudanese che cerca di stupire il mondo. Ad una delle partite con la sua nazionale, c’è uno scout statunitense che rimane profondamente colpito dall’apertura alare del giovane Manute e decide di investire su di lui. Bol riceve un’offerta dagli USA dove questo scout aveva ormai sparso la voce e all’età di 20 anni si trasferisce negli States. Approda nella Contea di Bergen, nello stato del New Jersey e frequenterà la Fairleigh Dickinson University dove le difficoltà aumentano giorno dopo giorno. Sì, perché il nostro protagonista ha due problemi di vitale importanza: il primo riguarda la sua generale alfabetizzazione, in quanto pare che Manute non sapesse né leggere né scrivere, e il secondo riguarda l’uso della lingua inglese, pari quasi a zero. È inevitabilmente comprensibile l’impatto affannoso che Bol ha dovuto affrontare, passando dalla piccola comunità alla grande città, dalla routine pastorizia allo stravolgimento dei ritmi di vita. La sua avventura universitaria può essere divisa in tre momenti: abbiamo appena visto il primo ma dopo pochi mesi dal suo arrivo, il ragazzo sudanese si trasferisce in Ohio, a Cleveland, dove frequenterà la Cleveland State University fino alla fine del suo secondo anno; il terzo anno, invece, lo farà in Connecticut, alla University of Bridgeport. L’ultimo anno è quello della svolta, il turning point nella sua carriera cestistica e non solo: i voti migliorano, l’inglese parlato correntemente e la possibilità di giocare per l’NCAA è lì, ad un passo. Ha l’opportunità per mettersi in mostra, per far vedere agli altri chi è, restando un ragazzone umile, immensamente alto e col futuro nelle proprie mani. I numeri dell’ultimo anno mostrano una crescita esponenziale: 22.5 punti, 13.5 rimbalzi, 7.1 stoppate a di media e oltre il 60% al tiro. Dati che, ovviamente, fanno girare più di una testa ai piani alti. Si rende eleggibile per il draft del 1985 e mentre Manute sta per coronare il suo sogno, nel frattempo nel suo Sud  Sudan lotta in una delle guerre più sanguinose dell’Africa contro il Sudan del Nord. La seconda guerra civile sudanese durerà ben 21 anni, mietendo centinaia di migliaia di vittime. All’interno di questa situazione di instabilità, molti Dinka persero la vita e la guerra dichiarata alla tribù Nuer fu catastrofica. Dall’altra parte dell’oceano, al primo giro vengono scelti: Pat Ewing (1), Chris Mullin (7), Karl Malone (13) e Joe Dumars (18). Al secondo giro, con la scelta numero 31 i Washington Bullets “selects Manute Bol from University of Bridgeport”. Prima ancora di scendere in campo, Bol mette a segno il suo primo record: il giocatore più alto (fino ad allora) ad essere sceso in campo con una squadra NBA. Completamente spaesato da questa incredibile ed inimmaginabile occasione, Bol si rende subito conto di non dover competere più con centri come quelli visti in NCAA. Manute non passerà mai alla storia per un attacco ricco di fondamentali, grandi movimenti in post basso o per i suoi ganci. Le difficoltà offensive deriveranno da un “problema” fisico che il nostro gigante si porta dietro da sempre: la gracilità. Sebbene il centro sudanese potesse vantare un’altezza mai vista, pari a 231centimetri, e quindi inarrivabile, lo stesso non vale per il peso; i suoi 102kg erano troppo pochi per poter combattere sotto i tabelloni. Questo aspetto vale solo per l’attacco, perché difensivamente parlando Bol è colui che “spegne la luce”, per dirla alla Federico Buffa. Nonostante le difficoltà, nonostante i problemi di peso, Manute ci mette il cuore, come gli hanno insegnato i Dinka, com’è nello spirito della sua tribù d’origine, in tutto quel che fa, soprattutto in difesa. La sua impresa e le sue gesta riecheggiano nei suoi numeri da rookie: 397 stoppate in 80 partite, con una media di 4.96 a gara, media che gli garantisce tuttora il record da matricola e il secondo ogni epoca. Nella sua penultima stagione a Washington, fece registrare, in coppia con Muggsy Bogues, scelto alla 12 del draft ’87, un curiosissimo record: i Bullets avevano in squadra il giocatore più alto, ovvero sia Bol di 2.31m, e il giocatore più basso, Muggsy Bogues, alto 1.57m. Per 3 anni vesti la casacca dei Bullets, ma i diversi coach che si susseguirono nell’arco delle 3 stagioni (Gene Shue, Kevin Lougher e Wes Unseld) non erano totalmente soddisfatti della poca abilità offensiva. I Bullets decisero di scambiarlo e di spedirlo ai Golden State Warriors, da coach Don Nelson. Da stratega e pittoresco personaggio di spicco nella NBA degli anni ’90, coach Nelson intuisce una possibilità sottovalutata dagli altri 3 coach: convenendo sull’assunto che sotto le plance Manute facesse una fatica incredibile contro la fisicità degli altri lunghi, decise di farlo giocare lontano da canestro. La bizzarra idea, che rispecchia perfettamente l’uomo che rappresenta, non riscuote il successo sperato ma in alcune partite Manute premia l’audacia del suo allenatore e segna anche da fuori.

Memorabile fu la partita in cui realizzò ben 6 triple! Le soluzioni offensive stentavano ad arrivare ma il gigante protegge va il  ferro come nessuno: la media di stoppate resta altissima (4.3 a gara). La popolarità del soprannominato “Gigante Buono” cresce ma la parentesi Warriors si chiude dopo appena 2 anni, 155 partite e 460 punti a referto. Il suo trasferimento ai 76ers e le 3 stagioni a Philly faranno di Bol una vera star. Ma come spesso accade, c’è il dolce e poi l’amaro. Le stagioni dal ’93 in poi sono degli incubi dai quali Manute non riuscirà ad uscirne facilmente. Nel 1993-94, infatti, Bol fu protagonista di una stagione da incubo, passando per tre diverse squadre (Miami, Washington e Philadelphia) e giocando in tutto la miseria di 14 partite a causa di un brutto infortunio alle sue fragilissime ginocchia. L’anno seguente fece ritorno ai Warriors, ma scese in campo solamente 5 volte a causa dei terribili dolori alle ossa che lo affliggevano. Dopo 10 anni di NBA, decise di abbassare il suo livello di gioco e, dopo una breve parentesi in CBA con i Florida Beachdogs, Manute decise di tornare dove erano le sue radici, in Sudan del Sud. Poco dopi mesi dal suo ritorno a casa, un italiano che risponde al nome del compianto Massimo Mangano, coach di Forlì in quegli anni, gli propone di giocare in Italia ma, sebbene al suo arrivo l’entusiasmo sia alle stelle, le sue condizione fisiche non gli permettono più di reggere il peso del gioco. Dopo 2 partite viene tagliato e ritorna in Sudan. Era partito poco più che ventenne, da pastore analfabeta, e tornava da giocatore NBA con una popolarità altissima. In 10 anni aveva cambiato radicalmente la sua vita ma non i valori che lo legano alla terra natia. Era partito poco più che ventenne, da pastore analfabeta, e tornava da giocatore NBA con una popolarità altissima. In 10 anni aveva cambiato radicalmente la sua vita ma non i valori che lo legano alla terra natia. Uno dei valori in cui non ha mai smesso di credere è la GENEROSITA’. Negli anni lontani dall’Africa non è il solo a cambiare ma anche la sua patria è totalmente sconvolta dalle guerre citate in precedenza ed è qui che gioca un ruolo importante la generosità del gigante: arricchito da anni di non indifferenti contratti NBA e innumerevoli compensi pubblicitari, distribuì buona parte dei suoi soldi a una gran quantità di parenti sparsi nelle varie tribù Dinka, contribuì al finanziamento dell’esercito popolare che lottava per la liberazione del Sudan e, a come ennesima riprova della sua grande generosità, fondò alcune associazioni di solidarietà, fra cui la Ring True Foundation, associazione a sostegno dei bambini poveri sudanesi. Non fu tutto rosa e fiori per il nostro gigante: una parte dei soldi incassati durante gli anni americani furono investiti per il proprio Paese, l’altra parte furono destinati ad investiti che si sarebbero poi rilevati non appropriati. Investendo all’estero soprattutto, il governo sudanese e la fiscalità non gli permisero più determinate cose e la prima azione preventiva contro Bol fu il sequestro del passaporto. Dopo anno non del tutto esaltanti, e dopo che le acque si furono calmate, Manute decise di ritornare negli States, dalla moglie e dai figli. Arrivò in Egitto, dove sarebbe dovuto partire per gli Stati Uniti; ma, complici anche i problemi successivi all’11 settembre 2001, ebbe grosse difficoltà col dipartimento d’immigrazione statunitense, nonostante la sua precedente popolarità. Riuscì infine a tornare negli USA. Nella nazione che tanta ricchezza e tanta celebrità gli avevano dato, Bol si diede da fare in mille modi, alle volte anche piuttosto degradanti, pur di trovare altri fondi utili alle sue cause: nel 2003, ad esempio, partecipò a un incontro di pugilato al Celebrity Boxing Show, trasmissione nella quale celebrità passate e contemporanee si sfidano sul quadrato; Manute, seppur a malincuore, partecipò e vinse l’incontro, aggiudicandosi i 35.000 dollari di premio che lo aiutarono nei suoi progetti. L’ultima idea fu quella di entrare a far parte di una squadra professionistica di Hockey su ghiaccio. La trovata fu semplicemente pubblicitaria, sempre alla ricerca di nuovi fondi per poter supportare la sua fondazione benefica. Ma nel 2010 il sipario si appresta a calare: viene colpito da quella che in gergo medico viene definita  la sindrome di Stevens-Johnson, ovvero sia una reazione acuta da ipersensibilità che coinvolge la pelle e le mucose e che può essere scatenata da malattie virali o batteriche, reazione avversa a farmaci o vaccini. Una fatale infiammazione renale che, a soli 47 anni, gli costò la vita. Una vita stroncata troppo presto per un gigante, per un uomo che così tanto si è dato da fare per la sua gente, per il suo Paese e per tutto ciò che gli stava a cuore.

Sono diversi gli aneddoti su di lui e, avendo conosciuto la sua storia, alcuni non ci sorprendono. Come quello, probabilmente tratto anch’esso dalla leggenda della tribù Dinka, di aver ucciso un leone con una lancia mentre faceva da guardia al suo gregge. Che sia una leggenda, una storia mitica, o semplicemente la verità dei fatti, a noi interessa relativamente. A noi interessa il valore dell’uomo, ancor prima che del giocatore. Interessa di un uomo che ha speso corpo, anima e tutte le sue risorse per migliorare il proprio Paese e rendere più felice la sua gente, la sua comunità, con una generosità grande quanto il suo corpo. Oggi avrebbe compiuto 52 anni e sarebbe stato ancora lì, ad aiutare la sua fondazione, a darsi da fare, proprio come un gigante buono aiuta i più deboli a lottare, a sopravvivere, a continuare a sperare in qualcosa. Esempi, emblemi della cultura africana come Manute Bol sono più unici che rari. Quanti alti bisogna essere per toccare il cielo? Poco, perché dall’altra parte c’è il braccio di Manute teso per noi, per insegnare ancora, a tutti, cosa significa essere generosi e altruisti verso il prossimo.

Gogrial, 16 ottobre 1962 – Charlottesville, 19 giugno 2010.

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone