STORIE DELL'ALTRO BASKET - Epica di Steve Nash

Attingiamo a piene mani da Wikipedia: “Nash è anche un geniale e raffinato matematico puro, con un’abilità fuori dal comune nell’affrontare i problemi da un’ottica nuova, trovando soluzioni eleganti a problemi complessi”. Nash è John Nash, economista e matematico statunitense, tra le menti più brillanti del ventesimo secolo nonostante una grave forma di schizofrenia ne abbia a più riprese condizionato vita e carriera accademica.

Non dovrebbe quindi stupire, soprattutto se si volesse dar credito al ‘nomen omen’ di latina memoria, che un suo quasi omonimo canadese, che ai tempi di Santa Clara girava per il campus palleggiando con una pallina da tennis per migliorare il ball handling, sia riuscito a prendersi l’Nba per un decennio. Pur senza arrivare a mettersi al dito un anello che, più di altri, avrebbe meritato. Ma siccome i premi alla carriera hanno sempre valenza relativa, ci tocca parlare di Steve Nash come di uno dei più grandi di tutti i tempi che non abbiano una dimostrazione tangibile (leggasi Larry O’Brian trophy) del proprio status di campione da apporre su un caminetto. Dove, comunque, ci sono due titoli di Mvp (2005 e 2006, unico non americano nell’esclusivo club dei dieci giocatori capaci di imporsi per due stagioni consecutive) a testimoniare che il nostro, in ogni caso, un segno su questa lega lo ha lasciato. E anche bello profondo.

Madre Gallese, padre inglese, canadese d’adozione, Steven John Nash è stato, come e più di Allen Iverson (altro grande perdente di successo), la personificazione dell’idea che la forza di volontà unita al talento di cui madre natura ti ha gentilmente fatto dono può farti arrivare dovunque. Anche se sei un bianco fisicamente normodotato catapultato in un contesto di superatleti e devi lottare duramente per guadagnarti ogni singolo minuto su quel parquet, facendo i conti con lo scetticismo generale.

Una realtà con cui Steve fa i conti praticamente da subito, fin dai tempi in cui i Suns lo scelgono come quindicesima scelta assoluta al Draft del 1996. Alle contestazione dei tifosi per aver ingaggiato un semi sconosciuto si aggiungono due stagioni da panchinaro di lusso (ma pur sempre panchinaro) di gente come Kevin Johnson, Sam Cassel e, soprattutto, di un Jason Kidd già ‘Giasone’ nonostante l’esordio avvenuto appena due anni prima.

Il passaggio dal sole dell’Arizona a quello del Texas, sponda Dallas Mavericks, è obbligato non foss’altro per aver trovato in Donnie Nelson, figlio del più celebre Don allora coach dei Mavs, un’improbabile eppur fondamentale mano nell’apertura della più classica delle ‘sliding door’. Consigliato (bene) dal suo erede, Nelson decide di dare una possibilità al nostro. I dividendi, discreti nelle prime due annate, diventano mostruosi nel 2000/2001: con 15,6 punti e 7,3 assist di media Nash diviene la punta di diamante del triangolo completato da Dirk Nowitzki e Michael Finley che, per la prima volta dopo 10 anni, riporta la franchigia texana ai playoff. E’ il primo passo di un percorso che porta Dallas ad affermarsi come una delle realtà più interessanti della sempre più competitiva Western Conference. I Mavs diventano la squadra di Nash. Nel bene e nel male. Perché se la faccia luccicante della medaglia racconta di quattro partecipazioni consecutive alla post season (un autentico miracolo considerando la situazione della franchigia a metà anni ’90), il lato oscuro mostra un gruppo di giocatori che, seppur ben affiatato, si scioglie sempre nei momenti che contano. Sono Kings e Spurs a dividersi equamente il ruolo di buccia di banana ad un passo da quella linea del traguardo chiamato Finals. Con Nash che, in qualità di ‘primus inter pares’, dopo gli onori si prende anche gli oneri di essere additato come il principale responsabile di quelle brucianti sconfitte, complice qualche palla persa di troppo negli ultimi minuti delle gare decisive.

Ed è questo che spinge Mark Cuban (che non è passato da modesto insegnate di cha cha cha a multimiliardario elargendo rinnovi a cuor leggero) a non pareggiare l’offerta di 63 milioni di dollari per 6 anni che i di cenere cosparsi Phoenix Suns fanno al free agent Nash nell’estate del 2004. Mike D’Antoni ottiene, così, la pietra angolare per la sua ‘run and gun’ nonché l’elemento decisivo per il verificarsi dell’eclissi lunare: di colpo, una squadra da 29-53 diviene il pericolo pubblico nel Wild Wild West, con il miglior record (62-20) e la media punti più alta dell’ultima decade (110,4 a partita). Con il figliol prodigo che contribuisce con il 50,2 % dal campo (43,1 da tre) e 11,5 assist ad allacciata di scarpe. Mai un MVP fu così meritato. A tal punto che, non pago, Steve concede il bis anche l’anno successivo nonostante una squadra decimata dagli infortuni.

Ma anche qui di vincere non se ne parla. E sono sempre gli Spurs a frapporsi sulla glory road. Prima nel 2005, in una finale di Conference dove scorre, letteralmente, il sangue. Anche quello di Nash, oggetto delle poco amichevoli intenzioni di Horry: un episodio che, a distanza di anni, porta ancora Popovich e D’Antoni a salutarsi appena e mai andando oltre un impercettibile cenno del capo. Poi, nel 2006, il 4-2 arriva al secondo turno con il ‘sistema’ che riesce sempre e comunque a spuntarla sulle frizzanti idee offensive del baffo che conquista.

Siam sempre lì, con un copione che si ripete con una puntualità disarmante. E, alle volte, ben oltre i demeriti del canadese. Sempre se di demeriti si può parlare, trovandoci al cospetto di un’icona di resistenza umana. Che ha riscritto l’idea del playmaking moderno, restituendola alla dimensione tanta cara ai puristi. Come il suo omonimo matematico “trova soluzioni eleganti ai problemi complessi”, senza però abbandonarsi al mero gusto estetico. La giocata deve per prima cosa essere utile. Se è bella e ti fa saltare sulla sedia, anche meglio. Un Bob Cousy degli anni 2000, genialità e fantasia al servizio dell’efficacia di squadra. Solo che Cousy qualcosina (eufemismo) ha vinto. Steve no e, col passare del tempo, è un dettaglio che inizia a pesare. Scalare le posizioni nella classifica ‘All Time’ per gli assist non gli basta più: vuole quell’anello, quel maledetto, irragiungibile anello.

Ma per fare questo occorre ben più che un manipolo di adepti più o meno giovani che corrono e sparano da tre come se non ci fosse un domani. Serve qualcuno che ha una voglia di vincere pari, se non superiore alla tua. E allora via, si parte in direzione California, zona El Segundo, citofonando all’ interno 24. Che, dal canto suo, è entusiasta di avere al suo fianco l’avversario di tante battaglie, convinto di aver trovato il ‘side kicker’ utile per la definitiva scalata a quella meravigliosa utopia chiamata sesto titolo.

Come sia andata a finire è storia dei giorni nostri, tanto dei Lakers quanto di Nash. Un triennio maledetto, costellato da tante ombre e pochissime luci (il 9 aprile 2014 supera Mark Jackson come terzo miglior assist man della storia) e funestato da un infortunio alla schiena che non gli da tregua. Mai. Fino a costringerlo al ritiro lo scorso 21 marzo.

Cosa resta, quindi, alla fine di questa giostra bella e sfortunata? Come dovremo raccontare Steve Nash ai nostri figli, ai nostri nipoti? Nell’unico modo possibile. Che è questo.

Perché, comunque, un riconoscimento tangibile del proprio ineguagliabile talento (che sia un premio Nobel per l’economia o un campionato Nba) conta fino a un certo punto. Soprattutto se si è riusciti a lasciare comunque un segno nella storia, giocando come mai prima e, probabilmente, mai dopo. Trovando, sempre e comunque, “soluzioni eleganti a problemi complessi”, da ‘beautiful mind’ del parquet più bello del mondo.

 

 

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone