STORIE DELL'ALTRO BASKET - Greg Oden e l'insostenibile leggerezza del sentirsi un bidone

“E’ un trauma che ho superato, ma sono perfettamente consapevole di essere uno dei più grossi bidoni della storia della Nba. E le cose andranno sempre peggio”.

Ecco, volendo abbondare in eufemismi, diciamo che la prima volta che sentii parlare di Greg Oden le premesse erano un filino diverse. Era il 2005 ed un noto settimanale italiano, non propriamente sportivo, aveva dedicato all’allora liceale di Lawrence North High School un servizio di quattro pagine, accompagnato da una foto curiosa in cui questo tersicoreo figlio dell’Indiana ascoltava da bravo scolaretto, in un banchetto tragicamente troppo piccolo per le sue dimensioni (già all’epoca si andava oltre i 2 e 10), una professoressa alta la la metà di lui, con tanto di occhiali d’ordinanza.

La cosa mi incuriosì, non foss’altro perché dal 2003, anno I d.L.J. (dopo LeBron James), anche in Italia i rotocalchi avevano iniziate a guardare con interesse al di là dell’Atlantico per scovare le storie della nuova generazione di superatleti non ancora maggiorenni, ma non per questo restii a lanciarsi nel mondo dorato e ipertestosteronico dei “pro”. Fu in quell’occasione che lessi dei tre titoli consecutivi con Lawrence North, delle 45 partite senza sconfitte con lui in campo, del “Gatorade National Boys Basketball Player of the Year” vinto nel 2006, della corte spietata dei college di mezza America (l’avrebbe poi spuntata Ohio State), dell’eredità di Shaquille O’Neal pronta ad essere raccolta.

“Un altro LeBron? Di già?” mi chiesi, dubbioso di quella convinzione che qualcosa anche solo lontanamente vicina al 23 di Cleveland sarebbe passata di lì a due secoli. Eppure l’anno con i Buckeyes sembrò legittimare dubbi e pezzi di approfondimento su riviste ben più importanti di quella che mi aveva fatto conoscere il nativo di Buffalo: un dominio a tratti imbarazzante e che andava ben oltre i 15,7 punti e i 9,6 rimbalzi a partita e una finale per il tiolo NCAA persa nonostante una doppia doppia da 25 punti e 12 rimbalzi. Naturale e scontato l’approdo in NBA dalla porta principale, con la prima chiamata assoluta al draft del 2007 da parte dei Portland Trail Blazers che su di lui intendono ricostruire la franchigia per riportarla ai fasti rasheediani, in un trio potenzialmente da sogno con LaMarcus Aldridge e Brandon Roy (un altro cui, a livello di infortuni, la dea bendata ha vergognosamente voltato le spalle).

Un progetto che comincia a naufragare già in partenza, con la stagione da rookie interamente saltata a causa di una microfrattura alla cartilagine del ginocchio destro. E non ci si lasci ingannare dal presfisso “micro”: si tratta di uno degli infortuni peggiori per un atleta, soprattutto per chi deve abituare i propri arti inferiori a convivere con un combinato di chili e centimetri ben al di sopra della media. Si rende necessaria l’operazione con tempi di recupero biblici, tanto che il nostro fa il suo debutto allo Staples Center in gialloviola soltanto all’inizio del 2008/2009: 13 minuti, zero punti e un infortunio al piede che lo ferma per le successive due settimane, il bilancio non proprio esaltante di quella che doveva essere nelle intenzioni la premiere di un film di successo. Il talento c’è, è indubbio, così come dimostrato da una doppia doppia imperiale (24 punti e 15 rimbalzi) con cui demolisce i Milwaukee Bucks in gennaio; a mancare è quella dimensione fisica necessaria per poter competere ad alti livelli nella Lega. Tra un problema l’altro si tira faticosamente avanti fino alla fine della, di fatto, prima stagione, con medie tutto sommato accettabili (8,9 punti, 7 rimbalzi e 1,1 stoppate a partita) ma ben lontane da quelle immaginate durante l’anno di college.

Greg non si arrende e lavora duro durante la successiva “off season” presentandosi tirato a lucido per l’inizio del campionato. I 24 punti (con 7/8 al tiro e 10/12 ai liberi) conditi da 12 rimbalzi e 2 stoppate con cui omaggia i Bulls il 23 novembre sembrano il biglietto da visita ideale nell’annata della consacrazione, con le statistiche in costante ascesa in tutte le categorie, offensive e difensive. Peccato che, tempo una settimana, e il 5 di dicembre si rompe la rotula del ginocchio sinistro, cadendo male dopo un rimbalzo. Stagione finita e con la necessità di una nuova operazione: un colpo terribile, con il peggio che, però, deve ancora arrivare. Nel novembre 2010, con Oden ben avviato sulla via del completo recupero, una risonanza magnetica evidenzia una nuova microfrattura alla cartilagine dello stesso ginocchio, già operato a fine 2007. Tre interventi chirurgici in poco meno di 36 mesi: se pensavate di aver visto tutto con il calvario di Ronaldo Luis Nazario da Lima a cavallo tra 1998 e 2000, beh vi tocca rivedere la vostra posizione.

Così come fanno i Blazers che, pur nella comprensione del dramma umano prima ancora che sportivo del ragazzo, decidono di liberarsene 2012. Ottantadue partite giocate in totale costituiscono il ben poco invidiabile gettone di presenza di Oden: di fatto, una sola stagione disputata a fronte delle quattro potenziali. Non è più una questione di credere o meno nel talento dell’ormai ex bambino prodigio: qui si tratta di ricostruire dal principio la personalità di un uomo che vede sgretolarsi tutto il suo mondo sotto il peso di un paio di ginocchia fragili come e più del cristallo di Boemia. Una metafora non casuale: chi investirebbe milioni di dollari per qualcosa o qualcuno talmente prezioso da rischiare di rompersi ogni volta?

La risposta, in queste storie di cestisti che conoscono la polvere dopo aver solo sfiorato la gloria, è sempre la stessa: Pat Riley, al quale il recupero del centrone ex Ohio State deve esser sembrata una bazzecola, soprattutto dopo l’aver fatto in modo, nei due anni precedenti, che anche due “icone” assolute come Chris Andersen ed Eddy Curry (no, non è un omonimo) potessero fare i brillanti alla cerimonia di consegna degli anelli di campioni Nba.

Nell’agosto 2013 arriva per Oden l’ultima chiamata: contratto annuale con gli Heat e la concreta possibilità di andarsi a giocare il titolo a giugno, con una squadra che punta al “Three peat”. Ma ormai la situazione è tale che nemmeno le riconosciute virtù taumaturgiche di Riley possono molto: “È frustrante che il mio corpo non possa fare quello che la mia mente gli chiede. Ma lamentarsene non cambierà le cose. Avrei tanto voluto poter giocare di più, ma non mi pento di essere tornato sul parquet”, dirà prima di una partita con Indiana che, con Hibbert a “scherzarlo” in tutti i modi possibili e immaginabili manco fosse Olajuwon, gli preclude ogni residua possibilità di un minutaggio adeguato. Durante i playoff sparisce praticamente dalle rotazioni e si ritrova, spettatore non pagante ma (profumatamente) pagato della disfatta alle Finals contro gli Spurs.

Il resto, se non lo sapete, potete immaginarlo. Tanto è fin troppo facile, purtroppo. A poco più di un anno di distanza dalla telefonata che avrebbe dovuto segnare la sua redenzione sportiva, Oden si ritrova di nuovo a spasso. E, siccome nel suo caso non piove ma diluvia sul bagnato, viene anche coinvolto in una brutta storia di percosse alla sua ex fidanzata che gli fa conoscere il freddo delle galere di Lawrence.

Cosa resta, quindi, oltre la dolorosa presa di coscienza del proprio status di “bust” che nemmeno l’invidiabile (quello si) conto in banca può aiutare ad alleviare? Dal punto di vista sportivo ben poco, causa fisico irrimediabilmente compromesso da infortuni, operazioni e carichi di allenamento insopportabili anche per un uomo di quelle dimensioni. Dal punto di vista umano, però, mi piace pensare che il grande libro della vita abbia in serbo per Greg qualcosa di bello. Perché l’essere un flop come cestista non vieta di essere un uomo in grado di affrontare a testa alta piacevolezze e rovesci della propria esistenza. Stoppando non più la guardia avversaria che va a canestro, ma la tentazione di lasciarsi andare a rimpianti e brutti ricordi. C’è tanto altro oltre il basket NBA, caro Greg. Non necessariamente di peggio.

p.s. Che poi, voglio dire: con Kwame Brown e Darko Milicic in giro sei proprio sicuro di essere tu il peggiore?

 

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone