STORIE DELL'ALTRO BASKET - The Reign Man

Se Andy Wharol avesse mai avuto l’intenzione di mettersi in cerca di qualcosa o qualcuno che sintetizzasse l’essenza di quel quarto d’ora di celebrità che toccherebbe a tutti avrebbe dovuto armarsi di Delorean e selezionare come destinazione la Seattle a cavallo tra anni ’80 e ’90. L’avesse fatto si sarebbe imbattuto sostanzialmente in tre cose: una città vibrante e, probabilmente, a lui molto più affine culturalmente di quanto non lo fosse la New York degli anni ’60; lo Space Needle che avrebbe potuto tranquillamente reclamare come proprio, considerando il wharolismo latente della struttura; un poster recante, anche questo wharoliano anziché no, la significativa scritta The Reign Man. Non Rain (benché Seattle, piovosa 300 giorni su 365, possa giustificare l’assonanza), ma Reign: regnante, di colui che regna sulla Key Arena e dintorni. Anche se solo per tre anni: che sarebbero ben più lunghi di un quarto d’ora in un mondo che non sia quello dello sport professionistico, che brucia idoli o presunti tali a un ritmo vertiginoso.
Di Shawn Kemp si è detto e scritto molto. Soprattutto che abbia esperito tutto l’esperibile a livello di problematiche extra campo per un atleta ricco e famoso. Dimenticandosi, però, dell’aspetto fondamentale: cioè che ci si trova di fronte a una personalità complessa e deviante finché si vuole ma che è riuscita, nonostante tutto, a farsi ricordare per il suo far “saltare le difese col trirolo”. Oltre che per detenere un record che, visti i tempi e le regole che corrono, non potrà più essere battuto; Kemp, infatti, fu il primo giocatore che fece il salto in Nba direttamente dall’high school, dichiarandosi eleggibile per il draft del 1989. Talento, certo, ma anche qualcos’altro di non altrettanto lusinghiero: la sua media scolastica era tale da non consentirgli l’iscrizione a qualsiasi College da costa a costa. Un dettaglio che, comunque, parve non interessare i Seattle Supersonics che lo chiamarono con la diciassetesima scelta assoluta.
E se i Mormoni, lì da qualche parte nello Utah, potevano accettare che la strana coppia composta da un muto di 1 e 80 e un gigante d’ebano tutto fuorché atletico facesse loro conoscere le meraviglie di questo giochino che ci fa impazzire, figuriamoci se nella città in linea d’aria (e non solo) più lontana dalla capitale degli Stati Uniti non credessero che The Glove & The Reign Man li potessero guidare alla terra promessa. Trovando, tra l’altro, fatti robusti a sostegno delle loro convinzioni. I playoff del 1993, per esempio: Stockton e Malone rispediti a Salt Lake City in cinque gare che definire dure non renderebbe giustizia al grado di testosterone che si raggiunge in post season, altre sette battaglie per aver ragione di quel ‘sogno’ chiamato Houston Rockets e Hakeem Olajuwon e, infine, i Phoenix Suns di Charles Barkley. Montagna difficile da scalare per chiunque non sia nato dalle parti di Wilmington, North Carolina, figuriamoci per una squadra giovane e a corto d’esperienza a certi livelli.
Il vento del tempo, comunque, sembrava soffiare a favore dei figli prediletti della città di smeraldo. Che, però, l’anno dopo si ritrovarono nella storia dalla parte sbagliata, protagonisti di uno tra i più clamorosi upset della Nba. Qualificati come primi ad Ovest, i Sonics al primo turno si trovarono di fronte i Denver Nuggets. Abbordabili ma non certo disponibili a farsi ‘sweeppare’ senza colpo ferire. Sotto 2-0, i figli del Colorado mettono in scena a Mile High City una riedizione delle Termopili, pareggiano 2-2 e poi vanno a vincere alla Key Arena: era la prima volta che la numero 8 del tabellone faceva fuori la numero 1. Una ‘scimmia sulla spalla’ (per usare un’espressione molto in voga a quelle latitudini) di discrete dimensioni visto che, nella stagione successiva, toccò ai Lakers vestire i panni degli underdogs di successo che sbattono fuori i favoritissimi Sonics.

Ma destino e sport, entità diverse ma non troppo, ti danno sempre una seconda occasione. Anche se non fai niente per meritarla. Anzi, forse soprattutto in quel caso. Nel 1995/1996 Seattle è semplicemente ingiocabile, una delle migliori squadre su singola stagione della storia recente della pallacanestro a stelle e strisce. E l’impatto di Payton e Kemp è terrificante: al 305 di Harrison Street va in scena un autentico capodanno cinese ogni volta che lo speaker Kevin Calabro annuncia: “The Reeeeignnnnnnn Maaaaaannnnnnn!!!”. Un urlo che si propaga lungo tutta l’America fino alle Finals: spazzate via Sacramento e Houston, lotta all’ultimo sangue con i Jazz di Malone costretto ancora una volta a chinare la testa in sette gare.
La seconda occasione, dicevamo. Ciò che il destino ti può regalare ma che devi anche saper cogliere. Dettaglio non da poco quando di fronte ti ritrovi un Michael Jeffrey Jordan al suo massimo dal punto di vista fisico, tecnico e delle motivazioni. I Sonics vanno sotto 3-0, si portano sul 3-2 vincendo gara 4 e 5, crollano a gara 6 e scrivono il proprio nome sulla lista delle grandi squadre senza titolo Nba a causa del numero 23. Che risulta, ovviamente, Mvp delle Finali ma trova anche parte della critica che vorrebbe Kemp insignito del titolo.
La sconfitta, benché dolorosa, potrebbe costituire il trampolino per un ciclo vincente. E, invece, il ribaltamento delle prospettive è tanto drammatico quanto repentino. Ed è proprio Kemp a dare inizio alla diaspora che porterà allo smembramento della franchigia negli anni successivi: problemi contrattuali mai del tutto chiariti, portano il nostro a disputare (volontariamente?) una delle sue peggiori stagioni dal punto di vista individuale, culminata nell’eliminazione per mano dei Rockets al secondo turno dei playoff. Il classico inizio della fine. La cessione ai Cleveland Cavaliers se da un lato pare riconsegnare ai palcoscenici Nba un giocatore nuovamente motivato, dall’altro confina una fisicità e un atletismo strabordanti in una squadra incapace di dire la sua da aprile in poi: un’eliminazione al primo turno e le successive due stagioni fuori dalla post season sono il magrissimo bottino del triennio in Ohio.
Della sua cessione ai Blazers sembra quasi non accorgersi nessuno. Shawn, ormai, fa più notizia per quel che ha combinato e continua a combinare fuori dal campo. Ingrassa a tal punto da bruciarsi quasi del tutto la sua arma migliore, lo stacco da terra: praticamente non salta più ed uno così, privato della sua potenza, risulta inutile. Per chiunque. Aggiungiamoci i ben noti problemi di alcolismo e tossicodipendenza, oltre a un imprecisato numero di figli sparsi in giro per il mondo, e il quadro risulta completo nella sua drammaticità.

Il ritorno in campo nel 2002/2003 con la maglia degli Orlando Magic somiglia tanto a un omaggio alla gloria passata e che non tornerà più. Più che altro risulta essere la conferma definitiva, se mai ce ne fosse stato bisogno, che a certi livelli The Reing Man non può regnare più. Quello che sbarca a Montegranaro, 39 primavere (portate male) sulle spalle e 5 anni dopo il ritiro, è ormai solo la triste caricatura di un ex giocatore. Per fortuna sua e nostra ci si mette di mezzo l’uragano Ike: nel giorno della presentazione viene, in realtà, comunicato il recesso e la risoluzione del contratto, con Kemp costretto a rientrare negli Usa per aiutare i familiari rimasti coinvolti nel cataclisma. Termine tranquillamente riferibile anche alla condizione fisica riscontrata dallo staff gialloblù nel corso delle visite mediche: ma almeno quest’ultima umiliazione gli viene risparmiata.
Tre: il numero perfetto, il numero degli anni in cui Kemp ha tenuto fede alla propria fame di regnante di successo. Un’eternità o il tempo di un battito di ciglia, a seconda dei punti di vista. Gestire quel quarto d’ora di celebrità è molto più complicato di quanto si pensi. Soprattutto se ti chiami Shawn Kemp.

 

 

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone