Da Trump a LeBron: Obama (con lo sport) ha già riavviato l'America

Trump al mattino, LeBron James qualche ora più tardi. Diverso ruolo, ma stessa notorietà. È l’America, noterete, nulla di strano; e quello che in Italia sarebbe stato un incontro annullato negli States si trasforma nell’occasione giusta per alleggerire i toni, alleviare le tensioni.

Poche ore dopo il voto elettorale, in un’America divisa a metà tra chi sostiene e chi attacca, chi festeggia e chi si preoccupa per un quadriennio che non ha ancora i contorni ben definiti. Barack Obama apre le porte della Casa Bianca per ben due volte nella stessa giornata: prima tocca al futuro presidente degli Stati Uniti, al primo contatto con la sua nuova realtà, poi al giocatore di basket più forte del pianeta. Uno che nella campagna elettorale si era apertamente schierato in favore della segretaria Clinton. Scherzi del destino.

Poche battute, una cerimonia divertente e spedita che ha saputo catalizzare l’attenzione del paese su argomenti diversi da quelli dibattuti da ore. Il presidente Obama ha accolto i Cleveland Cavaliers campioni come da tradizione: i vincenti delle discipline più note vengono poi ospitati nella capitale per uno scambio di opinioni con il presidente in carica, regalano una maglia della franchigia, compiono le foto di rito con il trofeo.
E stavolta è capitato proprio alla squadra di Tyronn Lue, per la prima volta nella storia di Cleveland. “Fa strano sentire le parole ‘Cleveland’ e ‘campione’ nella stessa frase, vero?”, dice Obama per sciogliere subito le pressioni. Poi la testimonianza delle ultime Finals: il presidente uscente è un grande appassionato di pallacanestro e da ex giocatore dimostra di aver seguito tutta ll’ultima stagione, fino all’ultimo tiro, quando ringrazia JR Smith ed il suo “show a dorso nudo” andato avanti per diverse ore. E per poco lo stesso Obama non ha dovuto ricevere a stretto giro di posta ben due franchigie della città nello stesso anno: i Cleveland Indians, infatti, sono stati ad un passo dalla vittoria delle World Series di Baseball, poi vinte dai Chicago Cubs in estrema rimonta (da 3-1 a 3-4 per la franchigia dell’Illinois).

Ma quanto può valere un evento del genere in un momento così delicato? Tanto, perché le parole dello sport assumono peso specifico importante quando pronunciate da uno degli sportivi più acclamati al mondo e quelle di LeBron James non si sono fatte attendere: “Dovessi vincere ancora, non so se andrei alla Casa Bianca con Trump”.
Il discorso presidenziale scotta alla maggior parte degli americani e gli americani di colore – dallo sportivo più acclamato all’ultimo della scala gerarchica – non saprà facilmente accettarne il passaggio dopo otto anni sotto l’egida di un progressista come Obama. Anche la NBA potrebbe accusare il colpo della scelta americana, anche se per via indiretta.
Ma il buon Barack, come sempre gli capita, ha saputo guardare più in là del suo naso anche stavolta ed ha usato la presenza dei Cavaliers (franchigia ad altissima percentuale nera) per ridare serenità e speranza ad un popolo in larga parte spaventato.
Perché nell’America così povera di storia prima dell’arrivo di Colombo, è lo sport a fare da antologia: e per riscrivere una bella storia da cima a fondo c’è bisogno anche dell’impegno degli uomini migliori.

 

 

 

 

 

 

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone