Premi di metà stagione: guerra per l'MVP, le uniche certezze sono Embiid e Lindsey

PREMESSA Doverosissima. Perché in NBA questa graduatoria è il frutto delle votazioni di gente ben più esperta di noi in materia. Eppure, essendo anche meno teste, è stato complesso trovare un accordo. Noi ci abbiamo provato comunque, ad assegnare i premi di metà stagione. In pratica, quelli che consegneremmo se la stagione regolare finisse in questo momento. Avendo superato da poco la prima parte, abbiamo provato a tracciare il bilancio nei singoli premi che poi verranno resi noti nel corso dei Playoff. Il risultato è il seguente, allacciate le cinture.

MVP: James Harden
28.6 PPG, 11.6 APG, 8.2 RPG
Il percorso di maturazione è molto vicino all’apice. Un aspetto che si era fiutato già nella passata stagione, quando il Barba ha trovato il modo di esaltare il sistema Morey Ball calandosi – in quel caso per necessità – nel ruolo di playmaker. Un ruolo che a Houston è sempre stato un cruccio, per le scelte poco felici che hanno portato a vederne di tutti i colori: da Beverley a Lawson, scelte sbagliate in un contesto instabile dopo l’esonero di McHale. Stavolta, James ha trovato la quadratura del cerchio, cavalcando l’onda di crescita dei giovani Harrell, Dekker e Capela (quest’ultimo per lungo tempo alle prese con un problema fisico).  E’, peraltro, il miglior assistman della Lega. Il che la dice lunga, sull’evoluzione catalizzata a velocità impreviste dall’arrivo di D’Antoni. Il record di 34-14 certifica quanto di buono stanno producendo i Rockets, e quanto di tutto questo ne vada dato atto al miglioramento di Harden.
In un ipotetico podio, il secondo gradino lo riserviamo ad un robertsoniano Westbrook, che è stato in ballottaggio fino alla fine con il Barba. La tripla doppia di media (30.7 PPG, 10.4 APG, 10.7 RPG) è un risultato pazzesco, se contestualizzato al gioco nella sua versione attuale, radicalmente diverso rispetto al contesto in cui dominava Big O. Paga, però, il record meno positivo dei suoi Thunder, 26-19. Al terzo posto, Isaiah Thomas (29.1 PPG) che sta guidando la risalita di Boston ai vertici dell’NBA. La leadership con cui trascina i Celtics, specialmente nei momenti caldi della partita, unita ad fisico poco convenzionale in questo momento storico del gioco, ne rendono ancor più speciale i traguardi raggiunti sinora.

MIP: Giannis Antetokounmpo
23.5 PPG (+6.6), 5.4 APG (+1.1), 8.9 RPG (+1.2)
Primo anno dell’era Antetokounmpo. Ecco che finalmente quegli smisurati mezzi fisici, uniti a cervello e coordinazione, stanno trovando il modo migliore di esprimersi. Non è più il giovane talento, è la stella di una squadra che attraverso lui ha ritrovato consapevolezza, giunto alla sua quarta stagione. Il miglioramento è evidente: con lo stesso minutaggio della scorsa annata, sui 35’, ha alzato tutte le statistiche e le percentuali di tiro.
Quella squadra che sembrava appartenere solo a Giannis, adesso è anche di Jabari Parker a tutti gli effetti. Le cifre dei due, infatti, in termini di punti sono piuttosto simili, con il greco che in media mette a referto tre punti in più del compagno. Parker è esploso (finalmente), dopo una stagione ai box per il grave infortunio e un’altra di rodaggio. La crescita, come evidenziata sopra, rispetto alla scorsa annata è sostanziale. La chiave del suo miglioramento è senza dubbio il tiro da tre. Arrivato nella lega come un ottimo tiratore, le percentuali registrate sono state nefaste nelle prime due stagioni, aggirandosi sul 25%. In questa, ha superato il 39% e prova in generale più conclusioni dalla lunga distanza.
Il terzo gradino del podio si avvicina di più ad un ex aequo. Perché Harrison Barnes, nel cambio di sede da Golden State a Dallas, ha avuto un’evoluzione importante. Più che altro perché da utile gregario è diventato il go-to-guy della franchigia. Per cui era anche auspicabile un aumento di rendimento. Nonostante le aspettative, però, non fossero necessariamente così alte, Barnes è passato da 11.7 punti di media a 20.2.

6° uomo: Eric Gordon
17.4 PPG, 2.8 APG, 2.7 RPG
In realtà non era nostra intenzione premiare lui, è da dire. Non perché non lo meriti, anzi. Sta facendo registrare delle cifre incredibili, e ha la grandissima dote di riuscire a sostituire Harden senza che la squadra ne risenta troppo dal punto di vista offensivo. Fattore, questo, da non sottovalutare. E’ però una questione di record, perché se Houston bazzica nelle zone alte della Western Conference, lo stesso non si può proprio dire per i Los Angeles Lakers di Lou Williams. La guardia dei californiani, oltre ad essere di poco superiore nelle cifre (17.9 PPG, 3 APG, 2.2 RPG), è anche il top scorer della squadra, partendo dalla panchina. Di professione sesto uomo, è riuscito a calarsi perfettamente nella realtà angelena nonostante il record sia il peggiore dell’intera conference occidentale. Stando così le cose, il premio va a Gordon.

Difensore: Draymond Green
Di LeBron James si è sempre detto che una delle sue doti più fulgide è la versatilità, di come possa tener botta con giocatori di ogni ruolo e vagliare le soluzioni offensive tipiche delle altre posizioni della pallacanestro. Un discorso analogo va fatto per Draymond Green, che è al suo record personale di rubate a partita e assicura una stoppata per ogni allacciata di scarpe. Perché se Bogut sapeva il fatto suo quando c’era da sorvegliare il pitturato, lo stesso non ci sentiamo di dire per Zaza Pachulia, che nonostante il buon apporto è meno solido nella propria metà campo. Ed è soprattutto grazie alla duttilità di Green che i Warriors possono fare tutte le small ball del caso utilizzandolo come centro. Kawhi ha un potenziale analogo, ma non è ancora impiegato costantemente sui lunghi avversari. Terzo posto per Gobert, che continua ad essere tra i più spaventosi stoppatori della Lega.

Coach: Mike D’Antoni
Ci sono coppie che si incontrano per caso, magari dopo tante esperienze travagliate. Ed ecco a voi i nuovi Rockets secondo D’Antoni. L’esaltazione della Morey Ball, che vede Harden diventare playmaker: se prima era una necessità, adesso diventa un’arma tattica decisiva. Ma non è soltanto questo: Dekker cresce a vista d’occhio, Harrell idem. Erano giovani ai margini del progetto prima, ora sono membri fondamentali delle rotazioni.
La menzione di merito la riserviamo a Scott Brooks, che con Washington ha trovato la quadratura del cerchio e ne sta guidando un’ascesa importante. La base del roster è considerevole, il backcourt è tra i migliori della Lega: muoversi sulla off-season in modo ragionato potrebbe voler dire avere una contender.

General Manager: Dennis Lindsey
La off-season è stata letteralmente un capolavoro. Immaginate un roster a cui mancano quei 3 giocatori esperti, magari da far partire in quintetto, per accompagnare i giovani nella maturazione. Ciò che vi viene fuori sono gli Utah Jazz dello scorso anno. Lindsey si becca il trofeo di mezza stagione per la genialità con cui ha portato a Salt Lake City i tasselli che servivano. Boris Diaw arriva per i diritti su Hanlan, la 45° scelta del draft di due anni fa. George Hill arriva nella trade a tre che coinvolge anche Hawks e Pacers e che ai Jazz costa soltanto la 12° scelta al draft 2016, tale Taurean Prince che ad oggi fa registrare di media 3.5 punti in 10’ di utilizzo. Con un biennale da 22 milioni di dollari, Joe Johnson si è convinto a passare dal caldo sud della Florida ad un più climaticamente ostico Utah. Ed ecco che da noni che erano la scorsa stagione, ora si ritrovano quinti. E non vorremmo essere nei panni di chi li beccherà ai Playoff…

Rookie: Joel Embiid
19.8 PPG, 2.1 APG, 7.8 RPG
C’è bisogno di dare delle spiegazioni?

About The Author

Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone