Quanto vale una squadra Nba?

Negli ultimi giorni la rivista Forbes ha pubblicato la classifica delle 50 squadre sportive dal maggior valore economico. Guida il Real Madrid, con 3.26 miliardi di dollari, staccando di poco i Dallas Cowboys ‘fermi’ a quota 3.2 miliardi e a pari merito con i New York Yankees. Poi ancora calcio con Barcellona (3.16 miliardi) e Manchester United (3.1 miliardi).

E la Nba? Appena sesta, con i Los Angeles Lakers che si attestano su un valore di circa 2.6 miliardi di dollari e con il sorpasso operato ai danni dei New York Knicks (ottavi) e dei loro 2.5 miliardi.

C’è però una differenza sostanziale e non di poco conto. Lakers, Knicks, Bulls e Celtics (le prime quattro esponenti della pallacanestro a stelle e strisce nella graduatoria di cui sopra) fanno parte di un sistema economicamente sostenibile, capace di generare utili e proventi significativi per ogni sua parte, senza squilibri eccessivi tra una squadra e l’altra. Almeno dal punto di vista economico.

Sempre secondo Forbes, infatti, oggi il valore medio di una franchigia Nba, al netto di annate più o meno buone sportivamente parlando, è di 1.1 miliardi di dollari, circa il 74% in più rispetto allo scorso anno: vale a dire, l’incremento maggiore dal 1998, anno in cui la rivista in questione ha iniziato a monitorare l’andamento di una delle leghe più famose del mondo. E proprio i Lakers sono l’esempio lampante di quanto stiamo descrivendo. Pur venendo, infatti, dalle peggiori due stagioni della propria storia, i gialloviola hanno visto schizzare alle stelle il proprio volume d’affari con un reddito che, nel 2013/2014, ha toccato i 293 milioni di dollari e con un utile di 104 milioni (record assoluto nella storia Nba). In un periodo che, è bene ricordarlo, la stella della squadra, quel Kobe Bryant che di milioni ne incassa 24 a stagione, ha giocato poco e niente a causa degli infortuni. Una grossa mano l’hanno data i ricchissimi contratti con le emittenti televisive. Per darvi un’idea, basti pensare che solo con Time Warner (rete privata locale) c’è un accordo, entrato in vigore nel 2012, che garantirà nei successivi 20 anni qualcosa come 3 miliardi di dollari: 150 milioni l’anno solo da una rete locale. Proventi che vanno ad aggiungersi a quelli derivanti dai diritti ceduti alle più importanti emittenti nazionali (Abc, TnT, Cbs, Espn).

Non deve stupire, quindi, che negli ultimi tempi anche altre squadre stiano cercando di proseguire sulla strada tracciata dai californiani. Atlanta Hawks, Miami Heat e Sacramento Kings hanno appena stipulato accordi con alcune reti locali che, si stima, garantiranno loro entrate tre volte superiori rispetto ai contratti precedenti.

Una montagna di soldi che, fortunatamente, non sono il privilegio di pochi. Uno dei fattori di maggior successo della Nba, infatti, è la competitività garantita a tutti. E nel mondo dello sport business del ventunesimo secolo competitività fa rima con denaro. Tanto denaro. Attualmente sono 11 (su 30) le squadre con un valore di almeno un miliardo di dollari, rispetto alle tre di un anno fa. Detto di Lakers e Knicks (con il reddito di 278 milioni calato del 45% a causa della pesantissima luxury tax da 36 milioni e dal mancato accesso ai playoff), abbiamo i Bulls (2 miliardi), i Celtics (1.7) e i Clippers (1.6). E se soltanto due di queste cinque (Bulls e Clippers) hanno ragionevoli probabilità di successi sportivi a medio termine, significa che i risultati contano ma fino a un certo punto. E che il sistema funziona alla perfezione.

Pur con la classica eccezione che conferma la regola. Per questo bisogna bussare alla porta di Michail Prochorov, proprietario dei Brooklyn Nets, con un patrimonio personale stimato in 13.4 miliardi di dollari. Eppure la sua non è quella che si definirebbe una gestione oculata, nemmeno nel contesto Nba dove tutti, ma proprio tutti, possono sperare di arricchirsi. Lo sa bene Steve Ballmer, nuovo proprietario dei Clippers che, dopo aver esautorato il discusso e discutibile Donald Steriling, ha acquistato il pacchetto per una cifra 3 volte e mezzo inferiore alle entrate effettive. Dal 2011, data della firma del nuovo contratto collettivo con i giocatori a seguito del lockout, i Nets sono stati l’unica squadra che, nella scorsa stagione, hanno perso soldi (quasi 100 milioni di dollari). E questo nonostante, secondo le stime della Cba, le quote relative ai proventi dei giocatori siano calate del 57% mentre il gettito pensato per sostenere le squadre a scarso rendimento sia più che triplicato (da 55 a 232 milioni di dollari). Considerando, inoltre, che il nuovo Barclays Center è l’arena che incassa di più nell’intero Nord America, il magnate russo si è posto qualche domanda. Soprattutto per quanto concerne gli emolumenti elargiti ai giocatori: 206 milioni di dollari in stipendi e 91 di sola luxury tax, sono francamente troppi per i risultati colti dai Nets in questi ultimi anni. E non può bastare l’aumento del salary cap per risolvere la situazione. Ed ecco perché, formalmente, la squadra è in vendita

Un dettaglio, comunque, rispetto ai numeri generali. L’utile operativo di una squadra Nba si aggira sui 23.1 milioni (contro il record di 23.7 della scorsa stagione); i ricavi, invece, sono in crescita del 5%, con 160 milioni per franchigia e 4.8 miliardi in totale. Cifre che significano una cosa sola: diversamente per quel che succede con le squadre di calcio, investire in una squadra Nba si rivela, nove volte su dieci, un affare colossale. Con notevoli vantaggi anche a livello fiscale: elemento che non guasta mai, soprattutto quando ci si trova di fronte a uomini con risorse economiche pressoché illimitate. I proprietari, infatti, possono dedurre il valore delle attività immateriali della trattativa fino a 15 anni dopo la transazione per l’acquisto di una franchigia. Di fatto, quasi il 90% del prezzo di acquisto può essere considerato un’attività immateriale e quindi formare oggetto di deduzione: vantaggio non da poco per chi mira a ricavare il massimo da franchising e merchandising.

Lo sa bene anche il futuro e, per ora, sconosciuto, acquirente degli Atlanta Hawks. Acquistati nel 2004 per 189 milioni di dollari dal gruppo guidato da Bruce Levenson e Micheal Geron, gli Hawks, dopo cinque anni consecutivi in perdita, la scorsa stagione hanno generato profitti per 20 milioni di dollari e sono collocabili sul mercato per una cifra vicina agli 825 miloni (cui se ne vanno ad aggiungere altri 124 relativi allo sfruttamento della Philips Arena, di proprietà comunale): quasi 4 volte e mezzo di quanto sborsato dieci anni fa.

Finita qui? Ma nemmeno per idea. Il prossimo passo, come annunciato a più riprese da Adam Silver, è l’internazionalizzazione. Gli Nba Global Games, le partite di regular season disputate all’O2 Arena di Londra, la prima partita che si disputerà in Africa, sono solo il primo passo di un processo che porterà la Lega ad essere il primo prodotto sportivo realmente globalizzato. Rispetto all’anno scorso i ricavi internazionali della Nba sono cresciuti del 18% (circa 350 milioni di dollari): cifra destinata a salire, soprattutto se il progetto del commissioner di lanciare quattro squadre in Europa prenderà effettivamente piede nel prossimo futuro.

Se si considera, inoltre, che nel solo continente asiatico (il mercato su cui tutti vogliono puntare) il marchio Nba è conosciuto da oltre 300 milioni di persone (nonostante su 101 giocatori stranieri non c’è ne sia nessuno proveniente dall’estremo oriente), questi numeri potrebbero rappresentare il punto di partenza di un volume d’affari che nessuno, nemmeno il più ottimista degli analisti di settore, potrebbe calcolare.

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone